Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase
negli ultimi anni, dai sostenitori del pensiero unico al fine di giustificare
prevaricazioni, discriminazioni e crimini di Stato verso l'umanità.
La frase "la
tua libertà finisce dove inizia la mia" tanto in voga tra i sedicenti "esperti" televisivi di ogni cosa, ma
completamente a digiuno di cultura giuridica, ripetuta con il tono perentorio,
sembra uscita da un film western più che da un manaule di diritto.
In molti infatti,
si sorprenderanno nel sapere che quella frase non è rappresentativa di alcun
principio giuridico. Nessun giudice, avvocato o chiunque abbia studiato (e
compreso) il diritto (se in buona fede) si sognerebbe mai di utilizzare quell'affermazione
per perorare una causa e/o motivare una sentenza.
La frase, utilizzata
con superficialità, è un insulto a millenni di storia della giurisprudenza e
alle migliaia di esseri umani che, nel corso della storia, hanno combattuto per
veder riconosciute, affermate e tutelati i diritti e le libertà umane
fondamentali.
Ma se non l'ha detta nessuno tra Clint Eastwood, John
Wayne, Gary Cooper, Robert Mitchum, Henry Fonda, James Stewart, Steve McQueen,
Paul Newman, Kevin Kostner e pensate, neanche uno tra Bud Spencer e Terence
Hill, allora da dove viene fuori?
Questa frase, attribuita a Martin Luter King, ma
già presente negli scritti dell'economista Kant, decontestualizzata dal
discorso che King fece o dagli scritti di Kant, diventa completamente
fuorviante e, non a caso, può essere poi utilizzata come argomento persuasivo
nel dibattito politico, o meglio pressappochista, da salotto TV.
La frase così gettonata, ha giocato un ruolo
importante nella propaganda del pensiero unico e nell'accettazione della
soppressione delle libertà fondamentali, perché rappresenta un chiaro esempio di manipolazione linguistica. Infatti, è un caso di risonanza
sentimentale.
La risonanza sentimentale è un bias cognitivo molto comune. Consiste nell'entrare in risonanza con una
proposizione ritenendola vera (giusta, positiva ecc.) semplicemente perché ci
ha emotivamente colpiti, ma senza averla sottoposta a un'analisi razionale.
Affermare e sostenere che "la tua libertà finisce dove inizia la mia" è una frase a
effetto priva di ogni spessore concreto e razionale.
Per capirlo basterebbe porsi una semplice domanda: come si può capire dove comincia la libertà
dell'altro? La risposta potrebbe essere: "Dove comincia la mia!"
È chiaro che ci troviamo dunque in presenza di un riferimento
circolare che praticamente non si può risolvere né logicamente, né nella
pratica quotidiana. Nella realtà esistono risorse o aspetti su cui gli
individui convergono, e su cui possono rivendicare il proprio diritto
di esercitare la propria volontà.
La libertà non è semplicemente chiedersi cosa vogliamo e
perseguirlo, a qualunque costo. La libertà in un contesto sociale è chiedersi cosa vogliamo e
come possiamo ottenerlo rispettando gli altri. Quando ogni persona
agisce con buon senso ed empatia, le regole non sono necessarie. Ciò presuppone però, che le persone siano state educate e abituate a pensare, e siano trattate come persone mature e adulte, consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. Ma nella nostra società è così?
Ho già accennato, in alcuni post precedenti, di come il sistema di potere abbia creato un sistema (dis)educativo mirante alla creazione persone omologate ed obbidienti, che hanno necessità continua di qualcuno che gli dica cosa fare, quando farlo e come farlo.
Viviamo infatti in una società piena di regole, una società costituita in gran parte da persone infantili (infatti è così che i media e i politici si parlano e trattano iil pubblico e i cittadini) che
non sono responsabili dei loro comportamenti e mancano di
autodeterminazione, quindi hanno bisogno di norme esterne per regolare
le relazioni.
Potremmo invece creare un vero e proprio sistema di convivenza e
libertà per tutti. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessario che
ogni persona sia pienamente consapevole della propria scala di valori,
dei valori scelti che non solo gli garantiscono di vivere come vuole, ma
garantiscono anche il rispetto della libertà altrui. Per questo sarebbe necessario ricreare una cultura democratica reale.
Da tempo ripeto che un Paese formalmente democratico senza una diffusa cultura democratica, non è una democrazia!
Siccome purtroppo così non è, in teoria le leggi esistono per dirimere
questi potenziali o reali conflitti. Ci sono però delle zone grigie, in cui l'applicazione
del diritto diventa più complessa.
Pur tuttavia
nel diritto (in senso oggettivo, cioè come il
sistema delle norme giuridiche presenti in un ordinamento giuridico o delle
norme che regolano una determinata disciplina) o se preferite in giurisprudenza, che è bene ricordare ha
avuto inizio fin dalle prime leggi scritte (per quanto inique o barbare) ai
tempi delle civiltà mesopotamiche, per poi evolversi nel corso dei millenni,
per arrivare fino ai nostri giorni, passando per la civiltà romana, vero
crocevia dell'odierno diritto, sono
stati creati concetti ben distinti per poter "regolare" eventuali reali o
apparenti conflitti.
Sto parlando della differenza che c'è tra diritto e
interesse e, ancor più tra "diritti individuali" (quelli umani
fondamentali) e "interessi collettivi".
Anche questi
concetti, sono stati strumentalmente e deliberatamente accumunati nel dibattito
pubblico, privandoli delle loro peculiarità e annullando i loro rapporti di
forza e precedenza, in modo da far apparire ragionevole, sensato e possibile l'annichilimento
di uno nei confronti dell'altro.
Spesso ciò è accaduto al fine di conferire maggiore
credibilità e autorevolezza alla già di per sé manipolatrice frase da far west
sopra citata.
Alcuni hanno voluto spiegare la frase come un
invito a "mettere da parte le convinzioni personali e gli egoismi per il bene
comune" o "l'importanza di un
equilibrio tra la libertà individuale e il rispetto per gli altri". L'idea
fondamentale è che ogni individuo ha il diritto di agire e vivere liberamente,
ma è altrettanto responsabile di non ledere i diritti e le libertà degli altri.
Il tentativo reiterato di manipolare l'opinione pubblica è ulteriormente evidente.
Infatti, si vuole sottintendere che il godimento di un proprio diritto
possa ledere gli altri e che quindi i diritti siano una cosa socialmente "negativa"
che sarebbe opportuno accantonare se in ballo "le libertà" degli altri (ma qui
si torna al no senso, al riferimento circolare del significato stesso della
frase) che sarebbe da anteporre alla propria. Oltretutto qui non si parla di "convinzioni
personali o egoismi" da contrapporre al "bene
comune", ma di diritti umani e democratici fondamentali!
Ma nessuno
si è mai degnato di spiegare questi concetti al pubblico perche faceva comodo
che non capisse!
Se, quando chiamati in causa da pseudo esperti da
salotto tv, conduttori e giornalisti, oltre che addirittura da medici, si
potrebbe ancora pensare che tali signori non avessero chiare le differenze tra i
due concetti, tale attenuante non è possibile attribuire ai giuristi,
costituzionalisti o addirittura alle "autorità garanti della Costituzione" e Primi
Ministri che si sono espressi allo stesso modo.
Questi ultimi
indegni personaggi, che hanno volutamente messo sullo stesso piano diritti
individuali e interessi collettivi, hanno altrettanto volutamente attentato
alla natura democratica del nostro Stato e dell'ordinamento giuridico e,
avendolo fatto oltretutto nell'esercizio delle loro funzioni rappresentanti
dello Stato, andrebbero perseguiti con ben più vigore (se esistesse realmente
una Magistratura indipendente).
Se è vero poi
che in uno Stato che voglia definirsi civile e democratico, deve esserci un
bilanciamento tra diritti individuali e interessi collettivi, è altrettanto
vero che in giurisprudenza i diritti non sono tutti uguali.
Nelle moderne democrazie, distinguiamo
oggi diversi gruppi di diritti riconosciuti a tutti i cittadini. Abbiamo i diritti
civili (diritto alla vita, libertà di autodeterminazione, libertà di
manifestazione di pensiero, libertà di movimento, inviolabilità del corpo,
libertà di culto, libertà di stampa e informazione, libertà di associazione,
diritto di sciopero, diritto di manifestazione pubblica), diritti politici
(diritto di elezione, diritto di candidatura politica, diritto di associazione
partitica), diritti economici (diritto di proprietà privata, libertà di
capitale, diritto di stipulare contratti, libertà di mercato, libertà di
impresa), diritti sociali (solidarietà sociale, assistenza sanitaria
universale, pari opportunità di lavoro, diritto d'istruzione).
A questi gruppi di diritti, se ne
affianca un altro di recente istituzione, non ancora pienamente ed egualmente
riconosciuto in tutti gli ordinamenti giuridici. Sono i cosiddetti diritti
di terza generazione frutto soprattutto della modifica culturale e del
pensiero, avvenuta in gran parte del mondo occidentale negli ultimi
quarant'anni. Di questo gruppo fanno parte ad esempio, il diritto di decidere
sul proprio corpo (libertà di cura, diritto all'eutanasia, al suicidio
assistito al testamento biologico), la libertà di orientamento sessuale,
libertà di accedere ai frutti delle nuove scoperte scientifiche (come il
diritto all'aborto o alla fecondazione assistita), ecc.
Tutti
questi gruppi di diritti, sia quelli tradizionali sia quelli di recente
istituzione, possono essere classificati secondo un criterio che prende in
considerazione la loro "forza", intesa come possibilità di farli valere o meno
nei confronti di qualunque soggetto.
In tal caso possiamo distinguere:
- i "diritti assoluti" (poiché possono essere
fatti valere su qualunque soggetto, anche nei confronti dello Stato); fanno
parte di questa categoria di diritti, tutti i diritti civili e gran parte di
quelli di terza generazione, come la libertà personale, la libertà di
circolazione e soggiorno, la libertà di domicilio, la libertà della segretezza della
corrispondenza (oggi più compiutamente diritto alla privacy), la libertà di
manifestazione del pensiero, il diritto alla vita e all'integrità psicofisica,
il diritto al mantenimento della cittadinanza e della capacità giuridica,
ecc.);
- i "diritti relativi" (quelli che possono essere
fatti valere solo nei confronti di particolari soggetti). Di questo gruppo
fanno parte i già citati diritti sociali e alcuni tra quelli di terza
generazione;
- i "diritti funzionali" (quelli cioè il cui
esercizio costituisce un qualcosa di circoscritto a determinate situazioni).
Questo gruppo è rappresentato dai diritti politici, da quelli economici e da
alcuni diritti sociali.
Qualunque
sia la classificazione che si voglia adottare, e sebbene il loro
riconoscimento, la loro tutela e garanzia costituisca un elemento essenziale
per valutare il "grado di democrazia"
di un Paese, è evidente che i diritti non hanno tutti la stessa importanza.
Non è un caso, infatti, che la
categoria dei diritti civili e buona parte di quelli di terza generazione,
siano definiti dall'ordinamento giuridico nazionale e internazionale come "diritti
assoluti" poiché inviolabili
e mai derogabili, neanche di fronte allo Stato o agli interessi collettivi di
cui si potrebbe far portatore.
*Brano tratto dal libro "Fact-Checking - la realtà
dei fatti, la forza delle idee"
La
relativizzazione dei diritti è in antitesi con qualunque pensiero democratico e
umano. La democrazia si basa,
infatti, sull'uguaglianza tra le persone e l'uguaglianza c'è soltanto in
presenza della garanzia dei diritti umani fondamentali. Ciò è possibile solo
quando si riconosce la presenza di diritti assoluti (e quindi inalienabili e
inderogabili) e mai relativi.
In una
società che si dichiara democratica ma che considera tutti i diritti come
relativi, è una finta democrazia, in cui la libertà è solo fittizia e la cui illusoria
percezione è data solo dalla lunghezza dell'invisibile catena con cui sono
legati gli schiavi, chiamati cittadini.
Non sorprende che i maggiori sostenitori di questo
tipo di pensiero smaccatamente relativistico, apparentemente collettivista ma intimamente
individualista e opportunistico, siano le forze politiche "progressiste",
alcune delle quali hanno addirittura avuto l'ardire e la sfrontatezza di
inserire, ormai anni or sono, nel nome del proprio partito l'aggettivo "democratico".
È bene
chiarire una volta per tutte che chi si dichiara progressista (e dunque
relativista), indipendentemente dal colore politico, è un fondamentalmente un antidemocratico,
assolutista, egoista prevaricatore (nazista, fascista, comunista, socialista,
poco importa). Insomma, il classico lupo travestito da agnello.
Essere poi democratici
di sinistra, proprio perché ci si rifà al relativismo progressista, è un
ossimoro. Lo sanno bene gli stessi esponenti politici che oggi militano nel
citato partito sedicente "democratico", quando vent'anni fa si accorsero come
fosse troppo sfacciato chiamarsi "Democratici di Sinistra", ed hanno poi virato
sull'odierno nome meno "appariscente" e rassicurante.
Accumunare genericamente
tutti i diritti, è metterli poi sullo stesso piano degli interessi collettivi e
affermando che i primi possono essere "compressi" (nel linguaggio orwelliano,
ma che significa in realtà "soppressi") a
favore dei secondi, è un deliberato atto criminale mirante a schiavizzare i
cittadini, negando il valore assoluto, (e quindi l'inviolabilità e l'inderogabilità)
dei diritti umani fondamentali, a favore
di un fantomatico interesse collettivo, dietro cui spesso poi si nascondono solo
interessi privati (economici, politici, ecc) e di lobby.
Ciò che
conferma la malafede è che lentamente l'espressione "diritti individuali" in
contrapposizione a quella di "interessi collettivi", è stata, addirittura
soppiantata anche nei discorsi ufficiali di chi risiede nei palazzi del potere
(politico) e che il nostro Paese dovrebbe rappresentare (oltre che fungere da "garante
della Costituzione"), dall'espressione "interessi individuali".
Posta così, nella nuova veste di contrapposizione
tra "interessi individuali" e "interessi collettivi", nessuna persona di buon
senso (neanche il sottoscritto) avrebbe argomentazioni per ribattere.
Purtroppo però, le cose stanno diversamente e i diritti individuali (parlo solo di quelli assoluti, e quindi
quelli umani fondamentali, come quelli civili e parte di quelli di terza
generazione) in un Paese realmente democratico, dovrebbero sempre prevalere
sugli interessi collettivi, perché l'essere
umano è più importante dello Stato.
Per fugare qualunque dubbio a riguardo, propongo
infine una riflessione per tutti quelli che conservano ancora un minimo di salubrità
cerebrale, un po' d'indipendenza di pensiero e di capacità logica cognitiva, ma
che si sono fatti persuadere dal pensiero relativista e fintamente buonista, ponendo
delle domande: può esistere l'uomo senza lo Stato? Certamente sì, non ci sono
dubbi.
Ora proviamo a pensare e rispondere a un'altra domanda:
può esistere lo Stato senza l'uomo? Ancora una volta la risposta non lascia
spazio a dubbi, ma questa volta è un secco e deciso No!
Nel corso del tempo, i giuristi di tutte le epoche
che hanno riflettuto sulla democrazia, si sono posti queste due domande e hanno
sempre trovato le medesime risposte che ci siamo dati anche noi.
È evidente quindi che sebbene ci sia la necessità
di bilanciare le libertà di tutti gli individui e gli interessi della
collettività, i concetti e le scale gerarchiche di potere tra i vari diritti,
così come la prevalenza di questi sugli interessi collettivi, deve essere
sempre riconosciuta, pena una civiltà in cui i rapporti sociali tra individui e
quelli tra questi ultimi e lo Stato saranno regolati soltanto dalla violenza e
dalla sopraffazione del più forte nei confronti del più debole. Chi accetta
quindi queste logiche, sta contribuendo a far tornare l'umanità al Medioevo!
Altro che progresso!
Stefano Nasetti
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